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L’Assessment come incontro condiviso

Quando si parla di assessment psicologico, il rischio è pensare a una raccolta di dati, a un insieme di strumenti tecnici per arrivare a una diagnosi. Ma l’esperienza clinica ci insegna che l’assessment è, prima di tutto, un incontro. Non è il terapeuta che osserva dall’esterno e misura, ma una persona che si avvicina a un’altra per comprenderne la storia. E in questo contesto i significati di un sintomo non sono mai isolabili dal contesto di vita in cui si inscrivono. Questo è il cuore dell’assessment condiviso: un processo che nasce nella relazione e che prende forma nel dialogo.

Il primo colloquio non è solo l’inizio di un percorso, ma un’esperienza che può già trasformare. Nel raccontarsi, il paziente non offre semplicemente informazioni: esplora insieme al terapeuta i fili della propria storia, scoprendo nessi, risonanze e nuovi modi di dare senso a ciò che vive. Gianni Liotti sottolineava che l’alleanza terapeutica si fonda su esperienze emotive di base, in cui l’altro diventa figura affidabile. L’assessment condiviso parte proprio da qui: dal creare uno spazio in cui la persona sente che la sua voce è importante quanto quella del clinico, e che ciò che emerge non è un verdetto, ma una costruzione comune.

 

In questo senso, parlare di assessment condiviso significa spostare l’attenzione dall’atto del “valutare” all’esperienza dell’“esplorare insieme”. La persona non è oggetto di misurazione, ma soggetto attivo che partecipa alla ricerca di significato. L’identità, può essere vista come una narrazione in continuo divenire, e questo vale anche per l’assessment: il racconto di sé si modifica, acquista nuove sfumature, trova altri legami proprio nel momento in cui viene accolto e condiviso.

 

La prospettiva narrativa diventa allora fondamentale. Raccontare non è solo riferire fatti, ma comporre una trama. Nell’assessment condiviso, terapeuta e paziente camminano insieme dentro questa trama: uno porta il vissuto, l’altro offre uno specchio fatto di ascolto, di domande, di pause che permettono di fermarsi e sentire. Jon Kabat-Zinn ci ricorda che “ascoltare è un atto radicale di presenza”. Così, anche il terapeuta non si limita a registrare ciò che viene detto, ma si lascia toccare, partecipa con la propria attenzione, con una qualità di presenza che apre spazi di consapevolezza.

 

Ogni gesto, ogni silenzio, ogni rispecchiamento hanno valore. L’assessment condiviso non è solo nel contenuto del dialogo, ma nel modo in cui il dialogo accade. Paul Gilbert ha mostrato come l’esperienza di compassione nasca quando ci si sente riconosciuti nella vulnerabilità: questo riconoscimento è già parte del processo di valutazione, anzi ne costituisce il nucleo più autentico.

 

Il punto decisivo è che l’assessment condiviso non precede la terapia: è esso stesso parte della terapia. Nel momento in cui una persona sente che la propria storia è accolta senza giudizio e che le proprie parole costruiscono senso insieme a qualcun altro, si attiva già un movimento di cambiamento. Non si tratta solo di arrivare a un’etichetta diagnostica, ma di scoprire un linguaggio nuovo per parlare di sé.

 

L’incontro iniziale diventa allora un laboratorio di significati. Ciò che emerge – sintomi, difficoltà, ma anche risorse e desideri – viene osservato non dall’alto, ma fianco a fianco. Come nel suonare in duo, non c’è un solista e un accompagnamento, ma due voci che si intrecciano: una porta il timbro della vita vissuta, l’altra offre un controcanto che aiuta a sentire la melodia in modo nuovo.

 

In questa prospettiva, l’assessment condiviso è già esperienza di cura. Non si limita a descrivere “come stanno le cose”, ma apre possibilità: un terreno comune in cui terapeuta e paziente imparano a riconoscere insieme ciò che pesa e ciò che sostiene, ciò che si ripete e ciò che può cambiare. È da questa base che il percorso terapeutico potrà partire, radicato in un’esperienza iniziale che non ha solo raccolto informazioni, ma ha già creato senso. 

L’importanza delle domande iniziali nell’assessment condiviso

Ogni percorso inizia da una domanda. A volte è esplicita: “Perché mi sento così ansioso?”, “Perché non riesco a smettere di ripetere certi errori?”. Altre volte è implicita, quasi inavvertita, nascosta sotto frasi come “non so più cosa voglio” o “mi sento bloccato”. Nell’assessment condiviso, il primo passo non è cercare subito le risposte, ma fermarsi a definire insieme le domande.

 

Questa fase è cruciale, perché stabilisce il tono dell’intero percorso. Non si tratta di decidere una lista di quesiti standard, uguali per tutti, ma di chiedersi: quali sono le questioni che per te, oggi, hanno più peso? È da qui che nasce la cornice del lavoro. Una cornice che non viene imposta dal terapeuta, ma co-costruita con il paziente, così che entrambi sappiano cosa stanno cercando, e in quale direzione volgere lo sguardo.

 

Determinare insieme le domande significa già creare un’esperienza di riconoscimento. Gianni Liotti ci ricorda che sentirsi visti e riconosciuti come soggetti con intenzioni è il fondamento della sicurezza relazionale. Quando il terapeuta chiede: “Che cosa vuoi comprendere di te stesso in questo momento della tua vita?”, sta già comunicando al paziente che la sua voce conta, che non è lì per essere “analizzato”, ma per esplorare la propria storia insieme a qualcun altro.

 

Le domande iniziali hanno anche una funzione orientativa. Senza di esse, l’assessment rischia di diventare un accumulo di dati e strumenti: utile, ma dispersivo. Con le domande, invece, si crea una bussola condivisa. Non si tratta di sapere già dove si arriverà, ma di stabilire un punto di partenza chiaro. È come tracciare l’itinerario di un viaggio: decidere quali sentieri percorrere per primi, quali paesaggi osservare con maggiore attenzione.

 

Queste domande, però, non sono mai statiche. Nell’arco del percorso, possono trasformarsi, arricchirsi, cambiare direzione. Spesso accade che, iniziando da una domanda apparente (“perché sto male sul lavoro?”), se ne scopra un’altra più profonda (“che cosa mi fa sentire degno agli occhi degli altri?”). Il compito del terapeuta non è bloccare questa trasformazione, ma accompagnarla, facendo spazio a ciò che emerge man mano. Come scrive Vittorio Guidano, l’identità è un racconto che si riscrive di continuo: le domande, in questo senso, sono i capitoli ancora aperti che aspettano di essere narrati.

 

Determinare le domande all’inizio significa anche prevenire un rischio diffuso: quello che l’assessment sia percepito come qualcosa che “serve al terapeuta”, e non al paziente. Al contrario, quando le domande nascono in modo condiviso, la persona sente che il percorso ha senso per sé, che ciò che si sta esplorando tocca davvero la sua vita. Questo aumenta la motivazione, rafforza l’alleanza e trasforma il processo in un’esperienza di cura già dalle prime battute.

 

Infine, c’è un aspetto più sottile. Le domande non servono solo a chiarire i contenuti, ma a creare uno spazio. Una buona domanda non è quella che porta subito a una risposta, ma quella che apre una possibilità. Jon Kabat-Zinn direbbe che ogni domanda autentica è un invito a “stare con ciò che c’è” senza giudizio. Anche nell’assessment, le domande iniziali sono come finestre: permettono di guardare la propria esperienza da un’altra angolatura, con la sensazione che non si è soli a osservare, ma che lo si fa insieme a qualcuno che accompagna.

 

In conclusione, l’importanza delle domande iniziali non sta solo nel loro contenuto, ma nel gesto che rappresentano. Sono il primo passo verso una mappa condivisa, un segnale che dice: “Il tuo bisogno conta, la tua voce è parte essenziale di questo cammino”. E già in questo, prima ancora che inizi la terapia vera e propria, c’è un seme di trasformazione.

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