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L’arte di integrare

Ogni strumento, ogni colloquio, ogni test ha un suo valore. Ma il vero compito dell’assessment non è collezionare dati, bensì integrarli. L’integrazione non è un atto tecnico, ma un’arte: richiede sensibilità, presenza, capacità di tenere insieme elementi diversi senza ridurli a una somma meccanica. È in questo lavoro di tessitura che l’assessment diventa davvero condiviso, perché solo nell’incontro fra i diversi fili narrativi – quelli portati dal paziente e quelli illuminati dagli strumenti – può emergere un disegno coerente.

 

Bruno Bara ricorda che “il senso non è mai nei frammenti, ma nella trama che li unisce”. In questo spirito, l’assessment non cerca la precisione assoluta del singolo strumento, ma la risonanza che nasce dal loro intreccio. Un ricordo d’infanzia, un punteggio elevato, un disegno incompleto: ciascun elemento, da solo, resta parziale. È quando vengono messi in dialogo che acquisiscono spessore e significato.

 

Integrare significa anche dare spazio non solo alle fragilità, ma alle risorse. Spesso l’attenzione si concentra sui sintomi, sui deficit, su ciò che non funziona. Ma un assessment che voglia essere davvero relazionale deve saper riconoscere anche le forze vitali, i gesti di resilienza, i desideri che continuano a pulsare sotto le difficoltà. Gianni Liotti sottolineava come il riconoscimento dei sistemi motivazionali positivi sia cruciale per la costruzione dell’alleanza. Così, ogni restituzione deve contenere non solo ciò che pesa, ma anche ciò che sostiene.

 

L’integrazione, inoltre, non è un atto solitario del terapeuta, ma un processo da vivere insieme. Fabio Monticelli insiste sul valore della co-costruzione: il clinico può proporre ipotesi, ma è nel confronto con il paziente che queste ipotesi diventano significative. L’assessment condiviso è questo: non un sapere già pronto, ma un sapere che nasce dal dialogo.

 

C’è in questo movimento qualcosa di molto simile alla musica. Ogni strumento ha il suo timbro, la sua voce. Ma l’armonia nasce dall’ascolto reciproco, dal modo in cui le voci si accordano. Così è nell’assessment: ogni strumento – proiettivo, psicometrico, narrativo, espressivo – porta un suono diverso, e il terapeuta ha il compito di favorirne l’incontro. Ma la vera musica non la fa il terapeuta da solo: la si crea insieme al paziente, nella risonanza che nasce dall’incontro.

 

In questo senso, l’arte di integrare è anche l’arte di restituire senso. Non basta raccogliere e organizzare: bisogna restituire ciò che è emerso in modo che diventi utile, trasformativo, vivo per chi lo riceve. Paul Gilbert ci ricorda che la compassione è “la capacità di trasformare la sofferenza in qualcosa di condivisibile e tollerabile”. L’assessment, quando è integrato, ha questa funzione: rende comunicabile ciò che prima era confuso, dà forma a ciò che era frammentato.

 

Ecco allora che l’assessment, così inteso, non si esaurisce nella valutazione. È già processo terapeutico, già esperienza di cambiamento. Dall’incontro clinico alla co-costruzione di senso, dall’analisi dei dati alla restituzione narrativa, ogni passaggio contribuisce a creare un cammino condiviso.

 

In conclusione, l’arte di integrare non è solo una competenza clinica: è un atteggiamento, una postura esistenziale. Significa accogliere la complessità senza volerla semplificare a tutti i costi, restare nel dialogo anche quando non tutto è chiaro, cercare coerenza senza cancellare le differenze. È un’arte che si affina con l’esperienza e con la presenza, e che trova il suo senso più autentico nel momento in cui terapeuta e paziente, insieme, scoprono che anche i frammenti più dolorosi possono diventare parte di una trama più ampia.

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