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SOTTOPELLE

(un percorso sonoro di Confine 8)

Ci sono viaggi che non si fanno con le valigie, ma con la pelle.

Sottopelle nasce da lì — da un ascolto lento, dal bisogno di stare nelle cose senza più controllarle, di lasciarsi attraversare da ciò che arriva, anche quando fa paura.

È un disco che non cerca risposte: le lascia affiorare.

Ogni brano è un movimento, una direzione emotiva, un piccolo atto di resa.

Si comincia dentro, nel silenzio che pulsa (Sottopelle), si muove il primo passo (Dove mi porto), ci si perde e si accetta di non sapere (Nessuna mappa), si imparano gli equilibri imperfetti, si torna alla riva con un cuore nuovo (Torno Riva), e infine si resta — attraversati, vivi, presenti (Mi attraversi).

È un percorso di maturazione emotiva e sensoriale, ma anche fisico: un viaggio del corpo nel mondo e del mondo nel corpo.

Ogni canzone è una soglia tra due stati — luce e buio, impulso e quiete, forza e fragilità — che convivono senza più combattersi.

Musicalmente, l’album attraversa diversi paesaggi:

dal piano nudo e la voce più intima, fino alle sonorità dense e profonde dell’ultimo brano, dove il suono diventa pulsazione, respiro, materia viva.

Come se tutto ciò che è stato sentito e taciuto, alla fine trovasse la propria voce.​​​​​

Sottopelle è un cerchio che non si chiude.

Resta aperto, come una ferita che non fa più male, ma respira.

È un invito a stare — non nel passato, non nel futuro — ma proprio qui, dove tutto scorre e si trasforma.

Sottopelle

(ascoltare ciò che vibra prima del suono)

Sottopelle è l’inizio di tutto.

Non solo del disco, ma di un modo nuovo di stare dentro la propria vita.

È un brano che non si apre verso il mondo, ma verso l’interno — dove le cose non hanno ancora un nome, ma già esistono.

È il respiro prima della parola, il battito che annuncia un movimento.

Il pezzo nasce da un gesto semplice: ascoltare.

Non per capire, non per aggiustare, ma per sentire cosa pulsa davvero quando tutto si ferma.

Là dove la mente tace, la pelle diventa memoria: ricorda ciò che abbiamo evitato, custodisce ciò che non abbiamo detto, sussurra storie che il corpo conosce meglio di noi.

“Sottopelle” è una discesa lenta, una soglia.

Non racconta un dolore, ma la sua eco: quella vibrazione sottile che resta dopo una perdita, dopo una paura, dopo un silenzio.

È un ritorno all’origine sensoriale del sentire — al punto in cui non siamo più solo pensieri o emozioni, ma tessuti, suono, movimento interno.

Musicalmente è il brano più nudo dell’album.

Piano, voce e un respiro che si allarga come un’onda appena percettibile.

Ogni nota cade con la precisione di un battito, lasciando spazio al silenzio come parte viva della melodia.

La voce non spinge: scivola, si incrina, a volte quasi scompare — come se il corpo stesso cantasse.

“Sottopelle” non chiede di capire: chiede di restare.

Di stare accanto alle cose che fanno male senza voltarsi dall’altra parte.

Di riconoscere che la vulnerabilità non è una ferita da guarire, ma un varco da attraversare.

È il primo passo di un viaggio che comincia dentro, e che, passo dopo passo, porterà verso il mondo.

Un invito silenzioso a sentire tutto ciò che si muove sotto la pelle — anche quando non sappiamo ancora dargli un nome.

Dove mi porto

(camminare senza sapere dove, ma sentendo perché)

​​​

Dove mi porto è il primo passo dopo il silenzio.

È il momento in cui qualcosa dentro si muove — non perché abbia capito dove andare, ma perché non può più restare ferma.

Dopo aver ascoltato ciò che vibra sottopelle, arriva l’impulso naturale del corpo: muoversi.

È un brano sul cammino, ma non sulla meta.

Sul bisogno istintivo di lasciare andare la versione di sé che non serve più, anche senza sapere chi verrà dopo.

Ogni passo è una scelta, ogni respiro un orientamento temporaneo.

C’è una fiducia leggera, quasi ingenua, nel lasciarsi portare da qualcosa di più grande — non una direzione precisa, ma una corrente che ti chiama piano.

Musicalmente, Dove mi porto ha la forma di un respiro che si allunga: un ritmo costante, morbido, con un piano che dialoga con le percussioni come se fossero passi.

La voce si apre di più, ma resta fragile.

È una canzone che cammina, letteralmente: si sposta da dentro a fuori, dal buio alla soglia.

Nel testo, il movimento non è fuga ma esplorazione.

C’è il desiderio di guardare la vita senza più volerla spiegare, di portarsi dove la presenza chiama, anche se non si sa per quanto o per chi.

“Portarsi” significa portare tutto: la paura, la fatica, la dolcezza, le domande.

Significa non dover più essere perfetti per meritare il viaggio.

Dove mi porto racconta quella libertà nuova che arriva quando smetti di chiederti se stai facendo la cosa giusta, e semplicemente inizi a farla.

È il suono della fiducia che si costruisce passo dopo passo.

Un invito a lasciarsi muovere, anche quando il movimento è incerto.

Nessuna mappa

(perdersi per tornare vivi)

Nessuna mappa è la resa più autentica dell’album.

Il momento in cui la direzione si dissolve e resti soltanto tu, insieme a ciò che accade.

Dopo Dove mi porto, dove il passo è ancora consapevole e fiducioso, qui la fiducia si trasforma in abbandono.

È il punto in cui capisci che non puoi pianificare un approdo quando la vita ti chiede di galleggiare.

Il brano parla del disorientamento come esperienza fertile, del vuoto come spazio da abitare.

Non c’è bussola, non c’è meta, non c’è certezza.

Solo un corpo che cammina, un respiro che tiene il tempo, un cuore che batte in un ritmo tutto suo.

È il momento in cui smetti di cercare il senso fuori, e inizi a percepirlo nel modo in cui reagisci, cadi, ti rialzi, resti.

Musicalmente, Nessuna mappa è il brano più pulsante dell’album.

Un’elettronica scura, avvolgente, dove la voce diventa quasi parlata, come un pensiero che si muove nel buio.

Il beat è regolare ma imperfetto, come un cuore in transizione: inciampa, poi riparte.

Le parole arrivano come frammenti — immagini che si accendono e si spengono — proprio come accade quando ci si perde e ogni dettaglio diventa improvvisamente nitido.

Il senso profondo di questo brano è nell’accettazione del non sapere.

Nel comprendere che il disordine non è un errore, ma la condizione naturale del cambiamento.

Non serve un punto d’arrivo quando impari a stare nel movimento.

Non serve capire dove sei quando inizi a sentire che ci sei.

Nessuna mappa non è un grido, ma un respiro: quello che arriva dopo aver smesso di resistere.

È la canzone dell’incertezza fertile, del caos che genera spazio, della vita che continua anche quando la direzione non è chiara.

È l’invito a lasciarsi vivere, a fidarsi del passo, a non avere più paura di perdersi — perché è proprio lì, nel disorientamento, che qualcosa di vero finalmente comincia.

Equilibri imperfetti

(restare in piedi anche quando si trema)

Equilibri imperfetti è il momento in cui il viaggio rallenta e trova una nuova forma di stabilità: fragile, viva, umana.

Dopo il disorientamento di Nessuna mappa, non arriva la chiarezza, ma un modo diverso di stare nel movimento — più vero, meno rigido, più somigliante alla vita.

Il brano nasce da un pensiero semplice: che l’equilibrio non è uno stato, ma un atto continuo.

Una serie di microcorrezioni, di oscillazioni sottili tra il sì e il no, tra il resto e vado.

Ogni equilibrio è un istante, e la sua bellezza sta proprio nella sua precarietà.

In Equilibri imperfetti si sente il corpo: il peso, il respiro, il modo in cui si sposta per restare in asse.

C’è la stanchezza del cercare, ma anche la dolcezza del lasciarsi andare.

È un brano che parla del punto in cui finalmente capisci che non serve più scegliere tra forza e vulnerabilità, perché entrambe ti appartengono.

Musicalmente, è un pezzo sospeso tra quiete e tensione.

La struttura si muove come un’onda: cresce, si ferma, poi riparte.

Il pianoforte tiene il centro, mentre basso e percussioni lo spingono appena fuori equilibrio, per poi riportarlo indietro.

Le voci si intrecciano, si inseguono, si contraddicono come pensieri che trovano una forma nel caos.

È una danza di pesi e controtempi, come camminare su un filo sapendo che potresti cadere, ma scegliendo comunque di avanzare.

Nel testo, Equilibri imperfetti è un invito a restare dentro le oscillazioni senza volerle correggere.

A riconoscere che la vita non è fatta di simmetrie, ma di spostamenti.

Che la stabilità vera nasce quando smetti di volerla raggiungere e impari semplicemente a respirare dentro il disequilibrio.

È una canzone sull’armonia dell’instabilità, sulla libertà di essere sbilanciati ma presenti, sull’accettazione del ritmo naturale delle cose.

Qui la calma non è più un punto d’arrivo, ma un modo di stare: in ascolto, in movimento, in vita.

Equilibri imperfetti è il cuore del disco — il suo battito costante.

È il momento in cui non si corre più per capire, ma si inizia a sentire davvero.

Torno Riva

(ritrovare casa senza smettere di andare)

Torno Riva è il respiro dopo la tempesta.

È il brano del ritorno, ma non al punto di partenza: al luogo interiore che si è trasformato attraversando tutto ciò che è venuto prima.

Non c’è trionfo, non c’è sconfitta. Solo una quiete che arriva piano, come l’acqua che si ritira dopo un’onda lunga.

Dopo il fluire incerto di Equilibri imperfetti, Torno Riva è l’approdo.

Ma è un approdo che non chiude, che non immobilizza: è il gesto di sedersi a riva, guardare il mare e riconoscere se stessi nelle sue increspature.

È un brano che parla del ritorno come accettazione: tornare a sé, tornare alla presenza, tornare al proprio corpo.

Non per ricominciare, ma per sentire di nuovo.

La musica segue questo movimento naturale.

L’andamento è lento, liquido, quasi fluttuante: un pianoforte che si scioglie nel suono, linee di basso profonde e respiri larghi di chitarra.

Le voci si sovrappongono come onde — nessuna prevale, tutte si fondono in una morbida continuità.

È un brano che si apre e si richiude su sé stesso, come il mare: niente inizio, niente fine, solo un movimento circolare.

Nel testo, Torno Riva è un atto di riconciliazione.

Con le parti di sé che si erano disperse, con le ferite che hanno trovato forma, con la vita che continua anche quando non è come la immaginavi.

È una canzone che sa di casa, ma non di abitudine: di un ritorno che ha il sapore della consapevolezza.

C’è un senso di gratitudine sottile, come se ogni errore avesse avuto un suo ruolo, ogni mancanza un suo significato.

Non c’è più la corsa a capire o a raggiungere: solo il piacere di poter restare, di poter respirare senza difesa.

Torno Riva chiude la parte narrativa di Sottopelle, preparando il passaggio verso Mi attraversi.

Se i brani precedenti parlavano del cercare e del comprendere, qui si parla del ritrovare.

È la canzone del ritorno consapevole, della pace che non si possiede, ma che si riconosce.

Alla fine, resta un’immagine:

una persona seduta sulla sabbia, lo sguardo fisso sull’acqua, il vento che passa, il corpo che ascolta.

Non c’è più niente da fare.

Solo tornare — e sentirsi vivi.

Mi attraversi

(chiudere gli occhi, restare aperti)

 

Mi attraversi è la fine e l’inizio insieme.

È il punto in cui il viaggio di Sottopelle non cerca più di capire, ma semplicemente si lascia essere.

Dopo la ricerca, il ritorno e gli equilibri instabili, arriva un tempo in cui non serve più difendersi o controllare: si può solo restare. E lasciarsi attraversare.

Non è un brano sull’amore, anche se parla d’amore.

Non è un brano sulla resa, anche se ne ha il sapore.

È una canzone che parla del momento in cui la vita smette di bussare alla porta e comincia ad abitarti dentro, senza chiedere permesso.

“Mi attraversi” è il gesto dell’equanimità vissuta nel corpo — quel punto sospeso in cui smetti di dividere le emozioni tra giuste e sbagliate, e ti accorgi che puoi restare aperto anche quando fa male, anche quando non capisci.

È il suono dell’accettazione, ma non di quella che si arrende: di quella che si espande.

Il brano nasce da un pianoforte scuro, profondo, quasi liquido.

Poi arriva il battito — come un cuore che ricomincia — e sopra si intrecciano tre voci:

una che parla, una che risponde, una che osserva.

Sono le tre parti di sé che imparano a coesistere: quella che sente, quella che teme, quella che comprende.

Musicalmente, Mi attraversi unisce due mondi:

l’intimità del piano e la tensione di un beat elettronico che pulsa come un’onda.

C’è qualcosa di carnale e spirituale insieme — il corpo che si lascia invadere dal suono, il respiro che diventa ritmo, la voce che si spinge fino al limite e poi si ferma, nuda, in un sussurro.

Alla fine, tutto si ferma.

Resta solo una voce che dice “mi attraversi, come la notte che non dorme”.

È lì che il senso si compie: non nel trovare pace, ma nel sentire che puoi esserci anche dentro il movimento.

Che la vita non è qualcosa da contenere, ma da lasciar passare attraverso.

SottopelleConfine 8
00:00 / 02:44
Dove mi PortoConfine 8
00:00 / 02:44
Nessuna MappaConfine 8
00:00 / 02:35
Equilibri ImperfettiConfine 8
00:00 / 03:21
Torno RivaConfine 8
00:00 / 03:31
Mi Attraversi Confine 8
00:00 / 03:23
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