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Bioenergetica: un invito gentile alla presenza

Ci sono momenti in cui ci sentiamo scollegati. Dalla giornata che stiamo vivendo, da chi ci sta accanto, persino da noi stessi. È una sensazione sottile, a volte quasi invisibile, ma riconoscibile: come se qualcosa di importante ci sfuggisse. Una distanza interiore che non si colma con il fare, ma che diventa evidente nel silenzio, nei momenti in cui tutto rallenta e ci rendiamo conto di non essere davvero presenti a noi stessi.

In quei momenti, il corpo è spesso il primo a lanciare segnali. Un respiro corto, una tensione che ritorna sempre nello stesso punto, una sensazione di stanchezza che non passa. Ma anche un’irrequietezza vaga, una difficoltà a sentire piacere, una perdita di orientamento emotivo. Questi non sono segnali da correggere o eliminare, ma da ascoltare. Sono messaggi. Forme di linguaggio incarnato che ci invitano a fermarci e a rientrare.

La bioenergetica è, prima di tutto, un invito a questo ascolto. Non forza, non impone, non pretende risultati. Invita. A rallentare. A sentire. A esserci. Non serve capire tutto. Serve iniziare a sentire, anche solo un frammento alla volta. Anche solo per il tempo di un respiro.


La classe come spazio di rientro

Ogni classe di esercizi bioenergetici è uno spazio protetto dove poter tornare a sé. Non serve sapere nulla, non serve fare bene. Serve solo portarsi. Con il proprio corpo così com’è. Con i pensieri, i blocchi, le emozioni, la voglia o la resistenza. Tutto può stare. Non c’è giusto o sbagliato. C’è solo il corpo e il suo modo di raccontare la storia che ci abita.

Attraverso il respiro profondo, il movimento consapevole, l’espressione libera e silenziosa del corpo, si crea un tempo diverso. Un tempo che non chiede produttività, ma presenza. Un tempo dove si può mollare la presa e sentire cosa resta. In quel tempo, il corpo può sciogliere le sue difese. Può tremare, vibrare, aprirsi. E qualcosa dentro può iniziare a cambiare. Non attraverso lo sforzo, ma attraverso la fiducia.

Molte persone descrivono la classe come uno spazio raro, in cui non devono dimostrare nulla. Solo stare. Solo lasciarsi andare quel tanto che basta per ritrovare un po’ di sé. Quel sé che, troppo spesso, si perde nei ruoli, nelle aspettative, nei ritmi quotidiani.


Non si lavora sul corpo. Si lavora con il corpo.

Gli esercizi bioenergetici non hanno lo scopo di modificare il corpo dall’esterno. Non sono ginnastica, né tecnica posturale. Sono pratiche che riconoscono il corpo come parte attiva del nostro modo di sentire, pensare, relazionarci. Il corpo non è solo un involucro: è un interlocutore. Un archivio vivente. Una bussola.

Il corpo non viene spinto a cambiare. Viene invitato a sentire. E nella misura in cui si sente al sicuro, può aprirsi, lasciar andare, respirare di nuovo. In una società che premia il controllo, queste pratiche ci insegnano l’abbandono. In un contesto che ci spinge alla contrazione, ci mostrano il valore della distensione. In un tempo che ci vuole veloci, ci chiedono di rallentare.

Chi frequenta una classe di bioenergetica impara, poco a poco, ad ascoltarsi in modo diverso. A distinguere tra una tensione e una chiusura. A riconoscere che certe posture non sono casuali, ma risposte antiche. E che ogni cambiamento profondo inizia dal sentire, non dal fare.


Un invito a tornare

Viviamo in un tempo che ci chiede spesso di andare oltre, di correre, di performare. La bioenergetica ci offre l’opposto: la possibilità di tornare. Tornare al corpo, al sentire, alla semplicità di un respiro pieno. Tornare a casa, dentro di sé.

Questo tornare non è regressione, ma ritrovamento. È un atto di cura, un gesto di riconnessione. È decidere, almeno una volta a settimana, che ci siamo. Che ci meritiamo uno spazio per essere, per scioglierci, per respirare davvero.

Non serve aspettare il momento giusto. Non serve sapere esattamente perché si vuole iniziare. Basta esserci. Anche solo per un’ora alla settimana. Anche solo per il tempo di un respiro consapevole. Da lì, spesso, si apre un sentiero nuovo. Uno spazio che prima non c’era. Un sentire più ampio, più vero, più vivo.


E se fosse proprio da lì che inizia il cambiamento?

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