Quando il corpo trattiene ciò che la mente non può dire
- Stefano Vita
- 28 ago
- Tempo di lettura: 4 min
“Il corpo è il teatro dell’anima.” — Alexander Lowen
Ci sono cose che non riusciamo a dire. Non perché non vogliamo, ma perché non sappiamo nemmeno da dove iniziare. A volte, una parte di noi non ha ancora trovato le parole, e un’altra ha paura di ciò che potrebbe succedere se le dicesse davvero. Ma il corpo… il corpo non aspetta.
Trattiene.Tende.Blocca.
E lo fa con un'intelligenza antica. Lo fa per proteggerci. Perché in quel momento, nella nostra storia, trattenere è stato più sicuro che esprimere. Più funzionale che sentire. Ma col tempo, quello stesso meccanismo di difesa inizia a farsi sentire come disagio, come tensione, come assenza.
La memoria che non è fatta di parole
“Il corpo porta il peso delle nostre storie.” Così scrive Bessel van der Kolk nel suo lavoro fondamentale sul trauma (Il corpo accusa il colpo). Le emozioni non elaborate, gli eventi traumatici, le esperienze relazionali precoci non si archiviano solo come ricordi: si depositano nella carne, nel tono muscolare, nella postura, nel respiro.
Ciò che non abbiamo potuto dire, piangere, urlare, è rimasto nel corpo. È diventato una contrazione, una difficoltà a respirare a fondo, un'irrigidimento delle spalle. Il corpo parla di ciò che non è stato accolto. E lo fa con onestà.
Durante una classe di bioenergetica, mi è capitato più volte di osservare un partecipante entrare in contatto con un tremore spontaneo, con una vibrazione che sale dalle gambe o dalle braccia. Non era nulla di violento, né scenico. Solo il corpo che, piano piano, iniziava a raccontare qualcosa che la persona non sapeva nemmeno di trattenere. E non serviva interpretare. Bastava rimanere presenti, lasciar spazio.
Un'altra volta, durante un lavoro con il respiro e il suono, un uomo che aveva sempre avuto difficoltà ad esprimere la rabbia si è accasciato lentamente a terra. Ha detto solo: “Non pensavo che ci fosse così tanto.” Non si riferiva a un pensiero, ma a una quantità di energia emotiva che non sapeva nemmeno di portare dentro.
Un gesto trattenuto è un’emozione congelata
Molti di noi hanno imparato presto che alcune emozioni non andavano bene. Che era meglio trattenere la rabbia, contenere il pianto, sorridere anche se si era tristi. Col tempo, quei gesti bloccati sono diventati una postura abituale, una rigidità. Come se il corpo si fosse adattato a non disturbare. Come se avesse deciso di essere "buono" per non essere abbandonato, giudicato, respinto.
Un esempio che porto spesso è quello di Marta (nome di fantasia), una giovane donna che ha iniziato a frequentare le mie classi dopo un periodo di forte ansia. Ogni volta che cercava di respirare profondamente, sentiva un peso sul petto. Aveva spesso la sensazione di non riuscire a "stare dentro di sé". Durante una sessione centrata sul lavoro con le braccia e l’allungamento, ha improvvisamente sentito la voglia di proiettarsi in avanti, come a raggiungere qualcosa. Le sono venute le lacrime agli occhi. Non sapeva perché. Ma dopo, si è sentita più leggera. Non aveva ricordato nulla. Non aveva capito. Eppure, qualcosa si era mosso. Era cambiata la qualità della sua presenza.
Il corpo parla. E non mente.
In psicoterapia, sappiamo quanto sia centrale il linguaggio, la narrazione, la possibilità di dare senso a ciò che viviamo. Ma ci sono strati più profondi, pre-verbali, dove il corpo resta l’unico vero testimone. Dove le parole non sono ancora arrivate. Dove forse non arriveranno mai, e non importa.
Lowen diceva: “Il corpo è verità. Non può mentire. Può solo trattenere.” E nel trattenere, ci parla. Ci mostra dove c’è una ferita ancora aperta, un bisogno non riconosciuto, una tensione che non ha avuto spazio per esprimersi. Il lavoro corporeo non sostituisce la parola, ma può portarla alla luce. È come aprire una finestra per far entrare aria in una stanza chiusa da tempo.
La classe come luogo di fiducia e libertà
Nella classe di esercizi bioenergetici, nessuno è obbligato a raccontare. Ma ognuno è invitato a sentire. A lasciare che il corpo si esprima nel modo in cui può, quel giorno, in quel momento. Può essere un respiro che si fa più profondo, un piede che spinge a terra, una voce che finalmente vibra. Ogni gesto è valido. Ogni movimento è un modo di tornare.
In uno dei primi incontri, propongo sempre esercizi molto semplici: camminare a piedi nudi, sentire il contatto con il suolo, aprire lentamente le braccia. Eppure, spesso è in queste prime pratiche che qualcosa si apre. Una persona mi ha detto: “Non mi ero mai accorto di quanto fossi rigido nel camminare. Come se non mi fidassi del terreno.” Quella frase conteneva molto più di una descrizione posturale. Conteneva una metafora di vita.
Il corpo fa il suo percorso. E lo fa in un tempo diverso, spesso più lento, ma autentico. E quando lo rispettiamo, quando lo accompagniamo senza forzarlo, ci restituisce qualcosa di prezioso: il contatto con noi stessi. E, a volte, anche con una parte di noi che avevamo dimenticato.
Non serve capire tutto. Serve iniziare ad ascoltare.
Ci sarà tempo per dare un nome a ciò che emerge. Per collegare, comprendere, raccontare. Ma prima di tutto serve il coraggio gentile di esserci. Di sentire. Di fidarsi di quella parte che non ha bisogno di parole per sapere cosa ci fa bene.
Forse non possiamo riscrivere tutta la nostra storia, ma possiamo riscrivere il modo in cui la abitiamo. E il corpo, in questo, è il nostro primo alleato.





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