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Il corpo non mente. Ma chi lo ascolta?

Ti è mai capitato di sentirti teso senza una causa apparente?O di avvertire un peso sul petto, nello stomaco, nelle spalle, che sembra non avere un nome preciso?

In quei momenti spesso cerchiamo una spiegazione, qualcosa che dia senso al disagio. Cerchiamo una parola che possa contenere quel malessere, incasellarlo, renderlo gestibile. Ma non sempre la mente riesce a trovare risposte. E allora restiamo lì, a metà. Con il disagio che ci accompagna e il corpo che prova a dire qualcosa che non riusciamo a tradurre.

Il corpo, però, non ha dimenticato. Lui sa. Lui custodisce.

Nella nostra cultura, siamo abituati a pensare, a parlare, a controllare. Ci viene insegnato fin da piccoli a dare valore alla parola, alla performance, al risultato. La mente guida, il corpo segue. Ma è davvero così? O forse ci siamo semplicemente disabituati ad ascoltarlo? E se fosse il corpo, invece, a conoscere prima ancora che la mente comprenda?


Il corpo come luogo del significato

Sempre più approcci contemporanei alla psicologia ci invitano a considerare la mente non come un'entità separata, ma come un processo incarnato, situato nel corpo e costruito nella relazione. I nostri vissuti non si formano solo attraverso i pensieri o le parole, ma anche attraverso ciò che sentiamo nel corpo: sensazioni, gesti, tensioni, movimenti. La nostra identità prende forma in relazione con gli altri, nel tempo, e il corpo non è solo contenitore, ma parte attiva di questa costruzione, vera e propria memoria vivente.

Tensioni muscolari croniche, blocchi nel respiro, rigidità posturali non sono solo effetti collaterali dello stress, ma vere e proprie memorie implicite del nostro modo di stare nel mondo. Il corpo parla il linguaggio della storia relazionale, delle emozioni trattenute, dei significati costruiti nel tempo. Non è solo un involucro, né un tramite: è soggetto e testimone.

Quando ci irrigidiamo, quando tratteniamo, quando non respiriamo a fondo, il corpo ci sta raccontando qualcosa. Sta proteggendo una parte vulnerabile. Sta adattandosi. Sta mostrando – con le sue forme, i suoi gesti, le sue chiusure – chi siamo diventati per far fronte alla vita.


La bioenergetica come pratica di ascolto

Gli esercizi di bioenergetica non sono tecniche da imparare, né strumenti per migliorare la performance. Sono inviti. Inviti ad abitare il corpo così com’è. A riconoscere che sotto ogni tensione c’è un bisogno. Che dietro ogni contrazione, c’è una storia. E che ogni respiro può diventare uno spazio nuovo.

In classe non si lavora per diventare più forti o più flessibili, ma per riconnettersi. Con il pavimento sotto i piedi. Con il respiro. Con il proprio sentire. Si lavora con ciò che c’è, senza forzare, senza voler raggiungere un risultato immediato. Ogni incontro è un’opportunità per stare con sé, per ascoltare senza giudicare, per accogliere anche ciò che normalmente si evita.

È un lavoro delicato, ma potente. Che richiede rispetto, fiducia, e presenza. Un lavoro che si fa insieme, in piccoli gruppi, dove la presenza dell’altro – silenziosa e non invadente – può diventare uno specchio, una compagnia, un sostegno implicito.

In un mondo che ci vuole sempre altrove, la bioenergetica ci riporta qui. Adesso. Dentro.


Il corpo sa già. La mente può imparare ad ascoltarlo.

La mente ha bisogno di capire. Il corpo ha bisogno di essere sentito. Quando li mettiamo in relazione, qualcosa si allinea. Una tensione si scioglie. Un’emozione trova spazio. Un respiro si apre.

Non c’è bisogno di spiegare tutto: spesso basta esserci, respirare, e lasciare che il corpo racconti ciò che la mente non sa ancora dire. È un atto di fiducia, di cura, di autenticità. È un modo diverso di conoscersi, più lento, più vero, più profondo.

E tu, quando è stata l’ultima volta che hai ascoltato il tuo corpo davvero? Non per modificarlo, non per giudicarlo, ma solo per esserci con lui, per sentire com’è, cosa dice, cosa chiede.

Magari il viaggio può cominciare proprio da lì.

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